A Beirut una città fantasma, così ce la mostra la Regista Libanese Nadine Labaki, tutto è Caos.La crudezza delle immagini che la scenografia supporta, ricorda il ruolo del reporter di guerra. In questa esemplificazione, la regista ci mostra il degrado in cui la popolazione e i protagonisti vivono, che sembra essere più uno stigma che una fase introspettiva. Forse un film documentaristico avrebbe reso con più forza le stesse immagini. E’ un film con un altissimo ritmo di immagini e di sequenze. E la macchina a mano genera dopo un’ora e mezza, una certa nausea. Un film necessita più di poesia che di durezza, la sceneggiatura invece ci racconta il disagio di Zain, un bambino 12 enne, che chiede al giudice all’inizio del film, di condannare i suoi genitori per averlo messo al mondo. Questo aspetto epico non ci convince come dato di fatto, perchè sotto questa condanna ricadrebbe l’intera Beirut. E la Regista Libanese, mostra nella prima parte del film, degli spezzoni di filmati, più che una sceneggiatura completa. Zain a casa sua, prima di entrare in carcere, vive solo un disordine affettivo e umano. Risulta fortemente scontata la visione dei bambini che giocano con fucili di legno, come lo è la visione di Assad 30 enne, che vuole prendere in sposa la sorella di Zain, Sahr ancora bambina. Queste circostanze, ci sembrano poco convincenti e mostrano come dato della realtà Araba, promiscuità, inganno, e coercizione sui bambini, come unico dato di fatto. Zain difende se stesso dall’inizio alla fine del film, dalla crudezza della realtà che incontra e da un alone impermeabile, che sembra essere solo una vista infernale. Nasce una domanda, ma la realtà che Nadine Labaki ci mostra è realistica o la realtà è uno stigma usato per le ragioni intinseche del film? Il popolo Arabo è davvero solo questo? Quello che ne viene fuori è imbarazzante. Dopo la partenza solitaria di Zain in pullmann, lo spettatore vive un momento poetico. Zain sulla ruota panoramica guarda il mare dall’alto. Poi il rapporto prolungato di Zain con la ragazza madre Etiope e suo figlio Yonas mostra ancora dei tratti poetici che danno alla seconda parte del fim una sua scorrevolezza. Ma cosa dire a Nadine Labaki. Perchè incentrare la sceneggiatura su un bambino che a 12 anni diventa subito adulto nel film e nella vita, con una coscienza oltremodo irreale. Tecnicamente un uso diverso della macchina da presa avrebbe imposto più credibilità all’intero film. Credo che su Zain la regista abbia esercitato una violenza inconscia per ottenere il meglio da lui, che risulta certamente molto bravo ma che è allo stesso tempo caricato di una responsabilità enorme. L’uso di una Steadycam sarebbe stato più opportuno per raccontare il film. In fondo a me il film non dispiace nello stile, ma appare alquanto ancorato a una visione occidentale del mondo Arabo. Il finale poi è disancorato da ogni logica sequenziale filmica, le immagini risultano movimenti di camera a mano esagerati, che raccontano la realtà in un senso poco credibile. In realtà tutto è caos.